di Francesco Manganaro
1. La situazione attuale
La pandemia ancora in atto è uno di quegli eventi che costituiscono uno spartiacque tra un prima ed un dopo. Un evento che ha provocato lutti e dolori, ma anche influito sulla coscienza personale e collettiva, in un turbinio di emozioni, tra paura, rabbia, insofferenza, depressione, voglia di riscatto. In questo contesto si possono individuare anche significative prospettive di modifica degli ordinamenti giuridici e, in particolare, delle azioni delle pubbliche amministrazioni?
Molte e differenti opinioni sono state autorevolmente espresse e non è qui possibile analizzarle: a questo scopo basti riprendere gli editoriali e gli articoli di questa Rivista ed i contributi pubblicati sul Forum dell’Associazione dei professori di diritto amministrativo.
Tuttavia, dopo oltre un anno dall’inizio della pandemia, si possono delineare alcune possibili prospettive di sviluppo del nostro contesto sociale e del nostro ordinamento giuridico, ovviamente considerando che le seguenti osservazioni scontano la necessità di una esposizione sintetica e perciò, al tempo stesso, apodittica.
2. La questione democratica
Si è a lungo discusso se le fonti normative per contrastare l’emergenza fossero adeguate al nostro sistema costituzionale, quando il governo ha utilizzato dpcm e, in seguito, decreti legge. Ma, ricondotto nelle regole costituzionali questo problema, è stato e continua ad essere ancora più palesemente pericoloso il continuo contrasto tra le misure governative e quelle adottate da Regioni o enti locali. Un conflitto già noto negli Stati plurilivello, ma che nell’emergenza della pandemia è apparso – anche mediaticamente – come una rissa perenne tra istituzioni, ben lontano dal principio della leale cooperazione, indicato dalla Corte costituzionale come principio fondamentale dei rapporti tra livelli di governo. Il vulnus al principio democratico si manifesta evidente in questo conflitto più che nella violazione delle fonti del diritto, che è stata attenuata nel corso degli eventi. È il conflitto tra le istituzioni che induce a pensare che il sistema democratico non funzioni, facendo auspicare ipotetiche soluzioni alternative. Non si tratta di stabilire (come pure sarebbe opportuno) se una funzione significativa quale la sanità spetti allo Stato o alle Regioni, quanto invece constatare che i livelli di governo – pure in una situazione che avrebbe dovuto indurre alla cooperazione – hanno mantenuto comportamenti altamente conflittuali.
Gli scontri ed i contrastanti provvedimenti adottati da Governo, Regioni, enti locali hanno altresì messo in evidenza una concezione leaderistica e personalistica del potere, configurando un conflitto non tanto tra Governo e Regioni quanto tra Presidente del consiglio e singoli Governatori o singoli Sindaci. Doppio danno alla democrazia. Un conflitto perenne tra istituzioni, che si rappresenta all’opinione pubblica come scontro tra singoli rappresenti dei governi statali e territoriali.
Da questo punto di vista, la pandemia ha definitivamente evidenziato la già nota insufficienza dei luoghi di coordinamento tra Stato, Regione ed enti locali: il sistema delle Conferenze è andato in frantumi di fronte al protagonismo del governo e dei singoli presidenti di Regioni o dei Sindaci.
La ricostruzione del Paese non può non partire da questo aspetto fondamentale. Il mancato coordinamento dei livelli di governo non consente di attuare sull’intero territorio nazionale quel diritto di cittadinanza che oggi si configura nei livelli essenziali di prestazione ai sensi dell’art. 117 Cost. Non più solo una differenza Nord – Sud, ma anche una difformità di modelli organizzativi tra alcune Regioni economicamente sviluppate, con diversi livelli di efficacia dei servizi. Il conflitto aumenta poi l’incertezza del diritto, quando le norme governative vengono impugnate o “sospese” da Regioni ed enti locali, alcune volte con provvedimenti palesemente inesistenti per assoluta carenza di attribuzione.
La ripartenza su questo punto non è facile, coinvolgendo più il livello politico che quello amministrativo. Lo spirito di sostanziale unità nazionale e l’autorevolezza del Presidente del consiglio che caratterizza l’attuale governo ha attenuato tali contrasti ma – come è ovvio – bisognerà trovare strumenti di collaborazione che prescindano dalle persone. Non c’è altra strada (al di là di fantasiose e futuribili ipotesi di revisione costituzionale) che quella di rivitalizzare il sistema delle Conferenze, liberandole tuttavia da lacci unanimistici, poco consoni a strutture di coordinamento con attori solo apparentemente legati da eguali interessi: basti pensare alle differenti esigenze di ogni singola Regione e dei diversi enti territoriali. L’errore fondamentale è la convinzione che in Conferenza le Regioni abbiano tutte le stese esigenze o che i Comuni abbiano le medesime opinioni.
Ci sarà bisogno di intervenire sulle regole delle Conferenze, almeno tentando di dare nuova linfa ad un istituto utile e necessario. In fondo, la questione democratica non può essere risolta solo con una gerarchia normativa ed organizzativa, ma sempre con una partecipazione condivisa degli enti territoriali, primaria espressione democratica della volontà popolare.
Un altro profilo attinente alla questione democratica, messo in luce dalla pandemia, è il rapporto tra politica e scienza.
La pandemia ha reso drammaticamente più evidente la fragilità dell’ecosistema di cui l’umanità è parte. L’imprevista diffusione del virus a livello mondiale e la sua rapida mutazione in diverse varianti dimostrano come i fenomeni naturali siano imprevedibili. Si pone, perciò, una questione scientifica sotto diversi profili. Il più evidente è che i decisori politici di tutto il mondo hanno fatto le loro scelte tenendo conto dei dati medico-scientifici. Se la competenza scientifica è necessaria, si pone comunque la questione di quali siano gli eventuali margini di decisione della politica, unica legittimata a contemperare interessi diversificati, complessi e contraddittori. Nell’emergenza sanitaria la competenza dei tecnici ha molto spesso sostituito la volontà della politica o comunque ne è entrata in conflitto. A livello internazionale, i principali provvedimenti, con effetti diretti sugli Stati nazionali, sono stati assunti dall’OMS; a livello europeo, l’autorizzazione alla immissione sul mercato dei vaccini è stata deliberata dall’EMA; l’acquisto e la distribuzione dei vaccini sono stati gestiti dall’Unione Europea, peraltro attraverso contratti inopinatamente segretati; a livello nazionale, tutte le scelte compiute dal governo sono state realizzate con il costante ausilio del Comitato tecnico scientifico, anche se non senza contrasti, come dimostrano le relazioni ora rese pubbliche.
Non si vuole affatto sminuire la necessità che, in vicende come queste, si debba tener conto delle fondate conoscenze scientifiche, ciò che in questa sede si vuole sottolineare è uno “spostamento” dell’asse delle decisioni politiche, che ripropone in maniera assai più vasta la questione generale del rapporto tra politica ed expertise. Gli studi di politologi ed esperti delle scienze sociali hanno da tempo sottolineato la pericolosità di una scienza di regime, tipica degli stati autoritari o, al contrario, la subordinazione di una politica troppo condizionata dalle valutazioni degli scienziati.
Non è qui possibile proporre soluzioni se non l’esigenza che vi sia capacità di direzione della politica, tenendo conto delle indicazioni – peraltro non sempre univoche – della scienza, nella consapevolezza che scelte e responsabilità toccano sempre agli organi rappresentativi della volontà popolare.
3. La questione europea
La pandemia ha cambiato radicalmente il paradigma della partecipazione degli Stati all’Unione europea. Un capovolgimento totale. Sembra passato un secolo, ma sono invece trascorsi pochi anni, dall’affermazione dei principi della totale liberalizzazione del mercato, del rispetto del patto di stabilità, del fiscal compact, del divieto di aiuti di Stato alle imprese (sul punto, la recentissima sentenza Corte di Giustizia, sez. decima, 14 aprile 2021). Tutti principi travolti dalla pandemia.
Il governo di Ursula von der Leyen ha necessariamente, ma meritevolmente, colto l’esigenza di un capovolgimento dei principi in una situazione particolare. Già all’apparire della pandemia l’Unione aveva provveduto a dettare regole derogatorie per l’utilizzo immediato di Fondi stanziati (Quadro temporaneo per le misure di aiuto di Stato a sostegno dell’economia nell’attuale emergenza del COVID-19 (2020/C 91 I/01 del 20 marzo e 2020/C 112 I/01 del 4 aprile; Regolamento UE 2020/588 del 23 aprile 2020).
Il nuovo spirito solidaristico ha peraltro anche ragioni politiche evidenti. Chi aveva imposto restrizioni economiche drastiche prima alla Grecia e poi a tutti i Paesi, soprattutto mediterranei, aveva suscitato – al di là della bontà delle scelte compiute – sentimenti antieuropeisti anche in Paesi che, come il nostro, erano ampiamente convinti della necessità di aderire ad un governo sovranazionale, ad un’Europa dei popoli, che consentiva – ad esempio – ai giovani studenti universitari di avere un respiro europeo attraverso i progetti Erasmus. Ma, soprattutto, quelle politiche restrittive della spesa pubblica avevano consentito il rafforzamento delle più radicali correnti populiste in diversi Paesi, rovesciando l’idea stessa dell’Unione europea, poiché la difesa degli interessi nazionali è possibile nel quadro di una solidarietà tra Paesi e non in una chiusura autarchica. C’è sempre un momento, nella vita delle persone e delle istituzioni, in cui “l’altro siamo noi”, un momento in cui, persi i nostri punti di riferimento, abbiamo bisogno degli altri per migliorare la nostra stessa situazione. È questo il senso degli strumenti di cooperazione internazionale e, nel nostro caso, dell’Unione europea.
Si tratta di un fatto episodico e transuente? Non mi sembra che sia così, non solo per un convinto afflato europeistico, ma perché – molto più in concreto – l’indebitamento che ogni Stato dovrà affrontare per molti anni a seguito della pandemia costringerà tutti a forme di cooperazione e di solidarietà reciproca. Bisognerà perciò modificare (anche se di fatto già avvenuto) le regole sul fiscal compact e sull’aiuto statale alle imprese, rafforzando le disposizioni già parzialmente emanate sulla coesione sociale e territoriale (sul punto, par. 5).
4. La questione amministrativa
La pandemia ha messo ancora più in evidenza che la cura degli interessi generali necessita di strutture pubbliche in grado di realizzarli. Non è certo una nuova scoperta, ma la crisi ha riproposto alcune tematiche di fondo, che non potranno non influire sul futuro.
La prima questione è la “riemersione” dello Stato quale principale protagonista della scena istituzionale, in un duplice senso. Innanzitutto, l’esigenza di contrastare la pandemia ha messo in evidenza che le politiche globali hanno comunque bisogno degli Stati nazionali (Fracchia). In secondo luogo, nel nostro ordinamento, riemerge un forte intervento statale nell’economia, in controtendenza rispetto alle politiche di privatizzazione sviluppate a partire dagli Anni Ottanta del secolo scorso. In particolare, l’incapacità del sistema sanitario di rispondere prontamente alla pandemia ha evidenziato gli errori compiuti con l’aziendalizzazione (o presunta tale) del comparto sanitario (Pioggia). Tutto ciò è risultato ancora più evidente in quelle Regioni che, nell’ultimo ventennio, avevano adottato drastiche politiche di privatizzazione, ridimensionando la sanità pubblica territoriale. E così, dopo decenni di privatizzazioni, si torna ad invocare uno Stato interventore/finanziatore, quando esso non ha più le necessarie strutture organizzative per rispondere direttamente a tali bisogni. Questo spiega anche la diffusa opinione di riportare allo Stato l’intera materia della sanità, ipotesi ora riconosciuta come fondata dalla Corte costituzionale (sent. n. 37/2021), seppure per lo specifico caso della pandemia, ricondotto nell’ambito della materia “profilassi internazionale” dell’art. 117 Cost.
La questione amministrativa è emersa sotto vari altri profili. La necessità di fornire rapide risposte per contrastare la pandemia ha (anche in questo caso) riproposto il tema della “lentezza” dell’azione amministrativa, nelle varie possibili configurazioni: ridotto numero del personale e delle strutture pubbliche, mancato coordinamento, insufficiente interoperabilità informatica tra enti, inerzia, difficile articolazione dei processi decisionali, mancata assunzione di responsabilità, complessità degli appalti pubblici ecc.
A fronte di questi problemi (che non possono essere dettagliatamente esaminati) si sono manifestate varie opinioni. Il tentativo di semplificazione, consolidato in uno specifico testo normativo (d.l. 76/2020), non è adeguato, considerato che vengono reiterate misure (ad esempio, silenzio assenso o modifica della conferenza dei servizi) che non hanno realmente consentito un’accelerazione delle procedure amministrative, mentre meglio sarebbe ricorre – come fece il Governo Ciampi – a regolamenti di delegificazione (della Cananea). Nella specifica materia dei contratti pubblici, si è preferita la “semplificazione” estrema, affidando a commissari con poteri speciali un’attività sostitutiva delle procedure ordinarie. Si è riproposta la questione se non si debba “sfoltire” il Codice dei contratti pubblici da norme eccedenti rispetto alle direttive europee o se, addirittura, non si debba sospenderne temporaneamente gli effetti. È stata introdotta una limitazione della responsabilità dei dirigenti e dei funzionari sia sotto il profilo penale dell’abuso d’ufficio che sotto il profilo della responsabilità contabile, al fine di contrastare la “fuga dalla firma”. A ciò si aggiunga, sul versante processuale, la proposta di sostituire o affiancare alla tutela di annullamento una tutela risarcitoria.
Inesistenti o temporalmente limitati appaiono, invece, i più necessari strumenti per una vera riforma amministrativa: riorganizzazione dei procedimenti, determinazione dei fabbisogni, qualificazione e formazione continua del personale, digitalizzazione ed interoperabilità dei sistemi informatici delle amministrazioni pubbliche.
5. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza
È in questo complesso contesto che si inserisce ora il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) approvato in questi ultimi giorni dal Governo e dal Parlamento ed ora inviato all’Unione europea per la definitiva approvazione ed il relativo finanziamento.
Il PNRR, insieme al Pacchetto di assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa (REACT-EU), è il principale strumento di attuazione del progetto europeo Next Generation EU ed assegna all’Italia la più alta quota del finanziamento europeo per un valore di 191,5 miliardi di euro, di cui 68,9 miliardi a fondo perduto, da impiegare nel periodo 2021-2026. Il Piano prevede sei Missioni: digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per una mobilità sostenibile; istruzione e ricerca; inclusione e coesione; salute. A loro volta le sei missioni condividono priorità trasversali, relative alle pari opportunità generazionali, di genere e territoriali e quattro riforme di contesto: pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione della legislazione e promozione della concorrenza.
Il Piano italiano è analogo a quello degli altri Paesi, viste le linee comuni dettate dall’Unione, ma ognuno ha diversa ampiezza e specifici obiettivi: il Piano francese (815 pagine) insiste sulla trasformazione energetica, avendo molti problemi sulle fonti di produzione; la Spagna (217 pagine) si sofferma sulle modalità collaborative tra Stato ed autonomie per la realizzazione delle riforme; la Germania (59 pagine) insiste molto sulla digitalizzazione.
I primissimi commenti sul nostro PNRR variano da eccessivi entusiasmi a sferzanti critiche. Certo il Piano è altamente complesso ed induce a riflessioni molto diverse, quanto alla sua attuazione. Non si discute, infatti, che si tratti di un investimento assai consistente, quanto piuttosto sulla capacità di spesa del nostro sistema e, soprattutto, se tali interventi produrranno un effetto non solo temporaneo.
Senza dubbio, a mio avviso, il Piano risponde a due questioni che ho esposto in precedenza. Il Piano capovolge il sistema europeo, che ora interviene massicciamente con finanziamenti rilevanti agli Stati nazionali, attribuendo ad essi una nuova centralità, liberandoli dalle restrizioni del patto di stabilità e realizzando un significativo intervento pubblico nell’economia. In secondo luogo, questo cambiamento della politica europea incide sulla questione democratica, poiché l’impronta solidaristica del Piano attenua le istanze populistiche e rafforza l’esigenza di maggiore coesione sociale e territoriale, da considerare un dovere amministrativo inderogabile per ridurre il divario di cittadinanza (Barone).
Rimane, a livello nazionale, la questione amministrativa.
Nel PNRR si scorge la consapevolezza della centralità delle amministrazioni pubbliche, chiamate a garantire l’effettiva realizzazione del Piano. Si afferma esplicitamente la necessità di una riforma della pubblica amministrazione che migliori la capacità amministrativa a livello centrale e locale; rafforzi i processi di selezione, formazione e promozione dei dipendenti pubblici; incentivi la semplificazione e la digitalizzazione delle procedure amministrative, con l’obiettivo di “una marcata sburocratizzazione per ridurre i costi e i tempi che attualmente gravano su imprese e cittadini”.
Si tratta di buoni propositi, già ampiamente noti. Può essere che l’urgenza di realizzare opere e servizi induca ad un effettivo cambiamento? Sarà possibile realizzare in sei anni gli interventi previsti con le strutture esistenti o con quelle che si vogliono realizzare?
Su queste domande sono già emersi diversi orientamenti nella prima discussione sul PNRR, organizzata – in coincidenza con la sua approvazione – dall’Associazione dei professori di Diritto amministrativo.
Intanto vi è la piena consapevolezza che il PNRR pone degli obiettivi, che ancora dovranno trovare ulteriore specificazione nei conseguenti provvedimenti normativi (ed organizzativi) ancora da emanare (Casini). Una massiccia rapida immissione di personale nelle amministrazioni pubbliche – come ipotizzato dalla Funzione pubblica – potrebbe essere utile ove si valutino le effettive esigenze delle amministrazioni, recuperando le adeguate professionalità perse negli ultimi anni per la mancanza di turn over ed introducendo nuove competenze, soprattutto nei settori innovativi della ricerca e della digitalizzazione. Un investimento duraturo a lungo termine, un’occasione di effettivo cambiamento, pur nella consapevolezza che il piano tocca interessi importanti che potrebbero resistere all’innovazione (Torchia).
Quanto all’attività delle amministrazioni, il Piano insiste erroneamente sulle semplificazioni e sulle liberalizzazioni (R. Ferrara); così come mantenere un lungo termine di autotutela dissuade gli imprenditori dagli investimenti, per l’incertezza sulle situazioni giuridiche prodotte (Sandulli). E, pur proclamando la necessità della ricerca scientifica per l’evoluzione del Paese, gli investimenti sulle Università premiano le eccellenze con interventi straordinari, invece di aumentare il Fondo di finanziamento ordinario per tutte le Università (Ramajoli).
Sulla tanto discussa materia dei contratti pubblici, il Piano non prevede significativi interventi se non la conferma di istituti di semplificazione, alcuni temporanei ed altri futuri. A questo proposito, si è rilevato che il Piano assegna gran parte delle risorse in materia di infrastrutture alle maggiori stazioni appaltanti (Ministero Infrastrutture, Ferrovie, Anas), soggetti ritenuti in grado di progettare e realizzare in tempi brevi le opere previste (Police). Come dire: se il sistema non è in grado di ridurre (come prevedevano diversi interventi normativi precedenti) il numero delle stazioni appaltanti, si affidano le risorse solo a quelle che hanno una struttura adeguata per una spesa rapida, efficiente e controllata.
In materia di appalti, a me sembra particolarmente significativa la previsione secondo cui si dovranno individuare “misure per il contenimento dei tempi di esecuzione del contratto, in relazione alle tipologie dei contratti” (punto 1.3.4). Come sostenuto in altra sede, la mancata realizzazione delle opere pubbliche è solo in parte addebitabile al procedimento di aggiudicazione ed ancor meno al processo amministrativo (i cui tempi sono assai ridotti), quanto invece alla fase dell’esecuzione, in cui si rivelano gli effettivi contrasti tra amministrazioni ed imprese. Si dovrebbero, perciò, rivedere gli articoli 100 ss. del Codice dei contratti, rafforzando nello stesso tempo le misure sanzionatorie e quelle compositive degli interessi, alternative alla giurisdizione: si potrebbe, ad esempio, prevedere che le controversie tra amministrazione ed imprese possano essere sottoposte alla giurisdizione solo dopo il completamento dell’opera, evitando lo scempio dei lavori incompiuti, realizzando gli interessi generali, ma salvaguardando comunque quelli degli imprenditori.
Vi è dunque nel PNRR un mix di interventi che, da una parte, intendono costruire la pubblica amministrazione del futuro con un profilo intergenerazionale (M. D’Orsogna) – mantenendo il paradigma della centralità del diritto ma allargandone i confini (Fracchia) – dall’altra, devono fare i conti con la necessità di spendere in modo utile risorse consistenti in tempi contenuti.
In questo articolato contesto, l’impegno civile del giurista – soprattutto di quello che si interessa del funzionamento delle istituzioni e delle amministrazioni pubbliche – può significativamente contribuire a rendere utile questa occasione per il futuro del Paese.